intervista a Roberto Calasso

dieci anni fa moriva di aids il grande scrittore inglese…

"Così ricordo il mio amico Chatwin"

Di Antonio Gnoli

Mi1ano

Una luce speciale, probabilmente unica, ha avvolto la vita di Bruce Chatwin, stroncata a 48 anni a causa dell'Aids. E quella luce ha continuato a brillare durante tutti i dieci anni che ci separano dalla sua morte, avvenuta a Nizza il 18 gennaio del 1989 . Nel Sud della Francia Chatwin fu condotto dalla moglie Elizabeth, una donna che egli aveva sposato negli anni Sessantà. Fu un matrimonio accolto nello stupore generale dagli amici che vedevano nel giovane Bruce non solo il talento incontenibile, ma anche l'inclinazione omosessuale. Ma non seppe quest'uomo arbitrare con impareggiabile maestria gli eterni opposti che giocavano in lui?

E' una domanda che giro volentieri a Roberto Calasso, che di Chatwin è stato per lungo tempo amico e editore.

<<A quali opposti sta pensando?>>.

Intanto a quelli più evidenti: era un inglese autentlco, ma con una insofferenza spiccata per il proprio paese, era stato nel mondo dell'arte e del collezionismo e se ne era staccato con repulsione, pur mantenendo intatto un certo culto del bello sembrava permanentemente in fuga ma conservava il suo rifugio londinese dove amava ritirarsi. Era socievole e solitario a un tempo. Potremmo continuare ma quelio che mi preme chiederle è se vale la pena indagare quel suo esercizio oscillatorio fra pulsioni opposte.

<<Credo che, se esaminassimo qualsiasi persona al di sopra di una certa soglia di complessità, troveremmo oscillazioni-analoghe>>.

Mi interessano quelle di Chatwin.

"Per quanto mi riguarda, non mi hanno mai stupito. Mi sembrava che abitassero tutte nella stessa figura. GIi opposti erano tanti, mai però incompatibili. Tutto rientrava in una tonalità di fondo, che era estetica".

Si spieghi megllo...

- "C'è un modo di intendere l'estetico come dimensione onniavvolgente: quello di Nietzsche quando scriveva che la vita stessa è un fenomeno estetico. Ed è anche il presupposto di una celebre frase di Brodskij: "L'estetica è la madre dell'etica". E' questo il terreno su cui Chatwin camminava...".

Il fatto di non provare alcuna sorpresa è da imputare alla naturalezza con cui Chatwin ha esercitato l'arte della contraddizione?

~ "Se si considera la letteratura, come tendo a pensare, un ramo della teologia, allora Chetwin va messo sotto la categoria della grazia. La naturalezza cui lei accennava è appunto la grazia, cioè il fatto che Chatwin sapesse attraversare le più diverse zone della vita e della conoscenza con un suo stile unico e riconoscibile. In fondo, questa è la cosa prima e ultima che si riesce a dire su di lui."

~ E' la cosa che lo rivela e lo rende inconfondibile…

"Non saprei trovarne altre. E' vero che Chatwin aveva talvolta pensieri abbaglianti, ma non era certo un pensatore sistematico. Così come non era un narratore coatto, uno di quegli esseri che ogni tanto nascono e si sentono costretti a scrivere storie per tutta la vita. Il sigillo sul tutto era una certa peculiarità dello stile. Ho ritrovato una nota di lettura che buttai giù quando lessi le bozze di In Patagonia e non sapevo nulla di lui. Diceva a un certo punto: " Ha una certa qualità Zen, di assoluta evidenza delle cose nominate senza che le parole intralcino". Lo direi tuttora".

Susannah Clapp, che a Chatwin ha dedicato una sorta di biografia, disse che se fosse stato fisicamente diverso— magari basso, grasso e calvo— la sua vita probabilmente avrebbe preso un'altra direzione. Come giudica l'affermazione di un'autrice che fu vicina a Chatwin nell'editing di In Pa- tagonta?

"Mi sembra un esercizio di immaginazione piuttosto ozioso. Magari se Chatwin fosse stato basso, grasso e calvo può darsi che avrebbe scritto libri ancor più interessanti. Chissà…".

Però quel fisico asciutto, quello sguardto luminoso e sereno hanno contribuito alla fama del per sonaggio, non crede?

"Separerei i due piani. Uno appartiene allla fisiologia dell’ opera, al suo respiro. L'altro piano riguarda quello che Kundera chiama imagologia". Qui effettivamente una foto di Chatwin, per esempio quella che lo ritrae con il suo zaino, può aver avuto effetti travolgenti sulla fantasia di molti che si sono accostati ai suoi libri. Un po' come le foto del giovane Truman Capote in mezzo a piante tropicali..."

Non trova sorprendente che questo scrittore sia passato nel giro di poco tempo dall'essere pressocché uno sconosciuto a una solida fama internazionale.

"E' forse il caso più rapido di leggendarizzazione che ci sia stato in questi anni. E mi aiuta a pensare che le leggende hanno più fondamento delle cronache".

Come editore credo le faccia piacere.

"Ovviamente. Vede, per un buon editore dovrebbe valere soprattutto una massima: Non sempre la virtù è punita" Ed è un sollievo vederla ogni tanto confermata dai fatti"

Ma come amico?

<<Mi rallegra ugualmente. Trovo solo un po' imbarazzante incontrare qualche rappresentante della numerosa tribù di quelli che studiano "da Chatwin>>

Poc'anzi lei parlava della letteratura come di un ramo della teologla. E questo mi fa venire in mente che poco prima di morire Chatwin sl era avvicinato alla Chiesa ortodossa. Che senso può avere una scelta del genere in un personaggio in definitiva molto libero?

"Non lo so. Ricordo che il suo "memorial service" avvenne in una chiesa ortodossa di Londra. Ciò che mi colpiì, in quella cerimonia, fu un senso di mite estraneità al circostante. Fuori dalle mura di quella chiesa poteva esserci Londra o qualsiasi altro luogo. Non ci furono discorsi ma solo la liturgia. E ricordo un altro particolare curioso.

Quella fu l'ultima volta che Rushdie fu visto in pubblico. La sera prima ancora scherzava amaramente sulla sua situazione.Appena finita la cerimonia,scomparve in una macchina nera insieme a Gillon Aitken, il suo agente.

Tornando alla Chiesa ortodossa è vero che Chatwin si sentiva attratto da quel mondo. Cosi anche quella cerimonia apparteneva al suo stile. "

Si potrebbe quasi cogliere un’assonanza con Cristina Campo…

"Certamente. Credo che nessuno abbia saputo spiegare come la Campo il fascino di quella liturgia, che oltre tutto non ha subito le devastazioni degli aggiornamenti ecclesiastici".

Lei accennava a Rushdie. I due fecero un viagglo in Australia. Non trova curioso che due persone così diverse si trovarono a condividere amabilmente questa esperienza?

"Non c'è dubbio che erano antitetici, però entrambi si riconobbero. Fra l'altro Rushdie gli dedicò un saggio dove lo definisce gypsy scholar. E'una definizione molto acuta. Non c'è dubbio, Chatwin è stato una specie di zingaro erudito. Aveva una percettività impressionante nel cogliere ciò che è essenziale, ciò che è decisivo in un certo ambito di studi. Non aveva probabilmente, né ha mai voluto avere, quel tessuto connettivo di conoscenze che ogni probo scholar, che dedica tutta la vita a un tema, possiede. Ma è proprio questo che dava freschezza e agilità a certe sue intuizioni".

Ne era consapevole?

"Perfettamente. Si accorse benissimo, per esempio che sul próblema dei nomadi non avrebbe potuto scrivere un vero studio, perché ciò avrebbe richiesto conoscenze mostruose anni di scavo nei testi.

Che cosa fu allora per lui il nomadismo?

"Prima che un problema storico, il nomadismo era per lui un registro délla sensibilità. Qualcosa che corrispondeva al passo della sua vita. E, vorrei aggiungere, al passo dei tempi. "

Vorrei chiederle qualcosa sui vostri rapporti. Quando vi conosceste?

"Qualche mese prima che uscisse l'edizione italiana di In Patagonia, nel 1981. Fu un'intesa immediata, come a volte capita. Chstwin fu uno dei pochissimi inglesi che guardando i 1ibri Adelphi non mostrò alcuna sorpresa. Capì immediatamente la forma della casa editrice, cosi come si capisce la forma di un libro".

Di che cosa parlavate?

"Di tutto e anche di qualcos' altro. Era un rapido vagabondare fra libri, persone, storie, luoghi, insofferenze".

Come spiega il suo pudore finale verso la malattia, questo suo tentativo di imputarla a un fungo cinese sapendo invece he era stata provocata dall'Aids?

"Non posso dire molto sul'ultimo periodo. Ci sentivamo per teletono e awertivo una specie di esacerbazione dovuta alla malattia. Aveva sviluppato un enorme interesse per le ricerche sui virus. Ricordo che una volta mi disse che eravamo entrati nell'epoca dei virus e che non riguardava solo l’Aids. Era come se il mondo avesse a che fare con una cosa he owiamente c'era sempre stata, ma che era destinata a manifestarsi in modo clamoroso".

Questa idea dell'epoca dei virus fa pensare all'altra faccia lel nomadismo...

"Si, anche i virus in fondo sono nomadi".

C'è un libro fra i suoi che le è più caro e che lega a un episodio particolare?

"Mi è difficile scegliere. Dorebbe essere Le vie dei canti perché è il libro di cui abbiamo parlato più a lungo e che ho visto svilupparsi in tutte le sue fasi. Però so benissimo che quel libro non è la cosa che lui aveva in mente. Si è fermato per ragioni brutali. Consegnò il manoscritto e la sera stessa si accorse che non poteva più camminare. Ma il libro che più glii corrisponde, e corrisponde anche all'idea bazleniana del "libro unico", è In Patagonia. E poi trovo magistrali le sue puntate nel giornalismo. O le fotografie. Ma anche qui, è difficile isolare una cosa dall'altra. Quello che conta è il timbro... Un timbro asciutto, penetrante: il timbro di Chatwin".